China Labour Bulletin director Han Dongfang is quoted in the following article. Copyright remains with the original publisher
Alessandra Spalletta
3 June 2013
Una soluzione negoziata agli scioperi di fabbrica: oggi è possibile. "Stiamo gradualmente introducendo il concetto di contrattazione collettiva che in Cina non esiste. Il Governo cinese ci ascolta”. Hong Kong come osservatorio sul sindacato cinese e i diritti dei lavoratori. E’ così per l’alfiere degli operai Han Dongfang, ex leader del movimento di Tiananmen, da quando nel 1993 fece ritorno dal breve esilio di New York per stabilirsi nell’ex colonia britannica, dove l'anno dopo ha fondato l'organizzazione non governativa China Labour Bulletin. In Cina, infatti, non può più entrare -almeno fino a quando non sarà ‘riabilitato’ dal Partito. A sentirlo parlare, questo bel signore distinto dagli occhi guizzanti e la folta capigliatura, si direbbe che il momento della riconciliazione con Zhongnanhai non sia un’idea peregrina. “C’è un filo diretto con il Governo cinese alla ricerca di una soluzione al crescente malcontento nelle fabbriche”.
Dongfang - che significa 'Verso Oriente' - nel 1989 faceva l’elettricista; fu uno dei protagonisti della protesta che raccolse a piazza Tiananmen studenti e lavoratori (la sua storia è ben raccontata da Cecilia Brighi ne 'L'imperatore e l'elettricista', Dalai). Dongfang quella piazza immensa l’aveva attraversata già molte volte, quando era un ufficiale dell’Esercito destinato all’ingresso al Partito Comunista cinese, una posizione che gli avrebbe garantito una solida posizione ai vertici della gerarchia politica. Dongfang era un ragazzino negli anni della Rivoluzione Culturale e la madre gli aveva inculcato l’adorazione per il Partito che durante la Seconda Guerra Mondiale aveva liberato la Cina dagli invasori giapponesi. Dongfang aveva piena fiducia nel Partito e aveva deciso di arruolarsi nell’Armata di Liberazione Popolare. Da giovane ufficiale aveva trascorso lunghi periodi nelle campagne dove Mao aveva spedito gli intellettuali ‘borghesi’ e ‘contro-rivoluzionari’ a rieducarsi; Dongfang, nominato soldato modello, supervisionava il lavoro degli altri militari. Ma non ebbe mai la tessera del partito, qualcosa andò storto; nelle campagne, oltre alla sofferenza e alla precarietà della vita, Dongfang scoprì un male ancora più profondo che stava rosicchiando il ventre del Partito: la corruzione. Dongfang provò a denunciare la corruzione dei generali, mostrando coerenza con i principi proclamati del partito. La sua tessera fu revocata. Dongfang tornò a Pechino e abbandonò l’Esercito. Fece il bibliotecario e si acculturò. Poi divenne un bravo elettricista. E fondò la prima organizzazione sindacale indipendente nel 1989, mentre la piazza diventava rovente. La Federazione Autonoma dei Lavoratori Cinese, in aperta sfida al sindacato ufficiale ‘cinghia di trasmissione’ del Partito All China Federation of Trade Unions, fu dichiarata fuori legge dopo il tragico ‘incidente’ del 4 giugno.
Han Dongfang è un sognatore. A Hong Kong, qualche anno dopo, ha fondato China Labour Bulletin, un’organizzazione non governativa in difesa dei diritti dei lavoratori in Cina.
Centottantamila proteste all’anno in gran parte legate agli aumenti salariali. Cinquecento milioni di lavoratori nelle fabbriche blandamente difesi da un sindacato -quello ufficiale, 239 milioni di iscritti- spesso inefficiente e soverchiante, che fatica ad affrancarsi dall'ombra ingombrante del Partito. Anche quando il Guangdong, la provincia più liberale della Cina, diventa laboratorio sperimentale di nuove campagne per l'elezione diretta dei rappresentanti sindacati, gli osservatori sono scettici perché di pari passo all'apertura, si assiste a una chiusura repressiva nei confronti delle Ong che operano nel campo della tutela dei lavoratori.
Duecento milioni di lavoratori migranti nelle città senza diritto di cittadinanza, penalizzati dal sistema dell''hukou' che li relega a cittadini di serie b; proprio loro, i protagonisti del miracolo economico cinese degli ultimi 30 anni, sono esclusi dal welfare. Il Governo sembra intenzionato a riformare il rigido sistema di registrazione familiare, parallelamente al piano di urbanizzazione che con un investimento di 40mila miliardi di yuan porterà a vivere in città 400 milioni di persone. E un Governo cinese che si sta sfilando dalle sentenze sul lavoro perché “il prezzo politico della repressione è troppo alto”, scandisce Han Dongfang durante una conferenza organizzata da Koinè a Roma. E i giovani che si affacciano al mondo del lavoro rifiutano la coperta stretta e avanzano richieste, a gran voce, ignari delle derive repressive del Governo la cui memoria in Cina è intrasmissibile; sono come “giovani vitellini che non temono la tigre”: ignorano le ferite del passato e non hanno paura di confrontarsi con le autorità. E’ quel popolo riversato sulla rete che fa sobbalzare i vertici a colpi d’inchieste virtuali a denunciare ogni genere di scandalo, dalla corruzione all’ambiente. La società civile si organizza: la Cina non sancisce il diritto allo sciopero, ma di fatto lo tollera ed è pronta a negoziare. Anche per evitare i casi più drammatici, quando gli operai ricorrono al suicidio come ‘estremo rimedio’: l'ultima notizia in ordine di tempo riguarda la Foxconn, la fabbrica taiwanese che assembla prodotti per Apple, Nokia, tristemente nota per la raffica dei suicidi tra gli operai che nel 2010 portarono a un aumento degli stipendi del 70%, dovuti secondo gli attivisti alle cattive condizioni di lavoro negli stabilimenti. Il 18 maggio altri 3 operai si sono suicidati, per ragioni che rimangono oscure. La Foxconn ha sempre rigettato le accuse. Ma è venuta a patti con gli operai, e non è l'unica.
Non c’è solo questo: la Cina sta puntando all’aumento dei consumi. Il Governo di Pechino sta cambiando modello di sviluppo e nel futuro, l’economia cinese sarà sempre meno dipendente dalle esportazioni e dagli investimenti e sempre di più trainata dai consumi interni. Quest’obiettivo rende necessario far lievitare i salari. Il Governo scende a patti con le richieste, sempre più numerose, dei lavoratori cinesi non più disposti a salari “ai minimi della sopravvivenza”. Nel 2012 i lavoratori migranti hanno guadagnato 2.290 yuan al mese, circa 290 euro. Il salario mensile, secondo i dati pubblicati dall'Ufficio Nazionale di Statistica, nel 2012 ha visto un aumento solo dell'11,8%, mentre nel 2011, l'aumento su base annua era stato del 21,2%. Mentre il Governo punta sul volano dei consumi interni, il potere d'acquisto si contrae e i consumi si deprimono. E poi, la tigre dell'inflazione è sempre in agguato.
Il movimento operaio dice no ai salari da fabbrica del mondo. Ma è possibile parlare in Cina della nascita di una coscienza di classe? “Non per come la intendete in Occidente: il movimento è disgregato, ciascuna protesta che nasce all’interno di una fabbrica ha un’origine circoscritta e un obiettivo che non va oltre il settore industriale di riferimento”.
I salari in Cina sono aumentati, soprattutto da quando il Governo ha innalzato il tetto per il salario minimo. Non abbastanza per ridurre le disuguaglianze di reddito tra città e campagna, che tra gli squilibri della Cina moderna è quello che preoccupa di più la classe dirigente: il coefficiente di Gini si allarga sempre di più e crea una drammatica duplicità nel Paese, tra i 100 milioni che vivono ancora in condizioni di povertà e 1 milioni di super ricchi (milionari). Se a ciò si aggiunge la rabbia dei cittadini per i privilegi dei potenti e le ingiustizie sociale, il risultato è un malcontento che serpeggia. Profondamente. Cosa fa il Governo per arginarlo? Aumenta il salario minimo e tassa le aziende statali per finanziare il sistema di protezione sociale.
La buona notizia è che gli stipendi sono aumentati. Nelle province del Zhejiang e del Guangdong, del 12% e del 19%, rispettivamente. La promessa del Governo è di portare l'aumento al 40%. I colletti blu se la cavano meglio dei colletti bianchi. I primi, infatti, hanno ottenuto diverse concessione da parte delle fabbriche, anche come risultato degli scioperi. Il China Labour Bulletin riferisce che i lavoratori di un'azienda taiwanese nel Guangdong che produce per Nike, hanno ottenuto un aumento salario a 1,300 yuan al mese, da 1,100, dopo aver incrociato le braccia. "Gli operai entrano in sciopero, entriamo in azione noi, aiutiamo i lavoratori e i proprietari dell'azienda a dialogare, tramite libera elezione dei rappresentanti di fabbrica, e a trovare un accordo che vada bene per entrambe le parti".
Han Dongfang racconta cosa è accaduto in una fabbrica giapponese di Shenzhen, Citizen Watch, nel novembre 2011: "La politica aziendale prevedeva che i lavoratori lavorassero per 40 minuti al giorni gratuitamente, per recuperare la pausa pranzo. Dopo aver parlato con gli avvocati, i lavoratori presero atto che tale richiesta era contraria alla legge cinese ed entrarono in sciopero, chiedendo che venissero restituiti loro 6 anni di lavoro non retribuiti. L'azienda rifiutò di negoziare. L'amministrazione locale, preoccupata che lo sciopero dilagasse nelle strade, intervenne mandando una 'task force' di 200 funzionari governativi, tra cui i sindacati, per tenere la situazione sotto controllo. Gli operai si rivolsero a uno studio legale e a una Ong; quest'ultima aiutò i lavoratori a eleggere i rappresentanti, introducendo in modo inedito un meccanismo di contrattazione collettiva. L'azienda mandò i dirigenti da Tokyo condurre la contrattazione, che dopo tre giorni si risolse con l'accordo che prevedeva la restituzione del compenso negati ai lavoratori, che misero fine allo sciopero".
L'aumento degli stipendi riflette il cambiamento del mercato del lavoro, che è passato da un eccesso di offerta a un eccesso di domanda. Il calo dell'offerta è dovuto all'invecchiamento della popolazione: secondo i calcoli dell'Ufficio Nazionale di Statistica, nel 2012 la popolazione cinese in età di lavoro si è ridotta di 3,5 milioni di unità. I colletti bianchi sono quelli più penalizzati, i loro salari nel 2013 sono aumentati miseramente del 5% o 10%. Troppo poco per far fronte alla qualità della vita che richiede, come riferisce ‘agichina24.it’, uno stipendio da almeno 20mila yuan (2.500 euro circa), una casa di proprietà, l'automobile e tempo libero. I 7 milioni di neolaureati che si preparano ad entrare nel nuovo mercato del lavoro, contribuiscono a deprimere l'aumento salariale. Neolaureati difficili da accontentare e poco disposti ad accettare impieghi scarsamente qualificanti.
Poi c'è il lato delle imprese, che a causa della decrescita non stanno vivendo un buon momento: un sondaggio di Thomson Reuters ha mostrato che il 67% delle aziende del Dragone che hanno presentato i dati di bilancio relativi al primo trimestre hanno mancato gli obiettivi di mercato.
E l'aumento del costo della manodopera rischia di essere un disincentivo per le aziende straniere ad investire nel gigante asiatico: le aziende europee sono meno ottimiste sul loro futuro in Cina; secondo la Camera di Commercio Europea in Cina, solo il 64% delle imprese Ue presenti in Cina sono in attivo: «il fattore negativo più importante è l'aumento del costo della manodopera, oltre al rallentamento della crescita sia in Cina che nell'Unione Europea e la crescente competizione hanno effetti notevoli».
Il mercato del lavoro si mantiene stabile. La domanda è alta: secondo una indagine del ‘Wall Street Journal’ che ha interpellato alcune tra le più grosse agenzie di collocamento cinesi (Manpower e 51job.com), la domanda di lavoro qualificato sta crescendo: il 62,4% delle aziende sta cercando professionisti e neolaureati nel primo trimestre di quest'anno, in crescita dal 59,7% dell'ultimo trimestre dell'anno scorso . Una manna dal cielo per il governo di Pechino, il cui dilemma oggi è far ripartire la crescita economica senza intervenire con politiche di stimolo fiscale. «Meno stato, più mercato» è il mantra del premier Li Keqiang da armonizzare con quella di una «crescita moderata»: quest'anno l'obiettivo di crescita è del 7,5%, un tasso più contenuto su cui c'è consenso tra i leader. E mentre i dati scoraggianti sul Pmi manifatturiero, che a maggio si è contratto per la prima volta in sette mesi, e sulle esportazioni spingono gli economisti a tormentarsi sulla soluzione migliore per le riforme economiche, e il FMI taglia le stime di crescita del Drago per il prossimo anno dall'8% iniziale a 7,75%, il Presidente Xi Jinping e il suo Primo Ministro Li Keqiang ribadiscono che non è intenzione del Governo inondare il mercato di nuova liquidità, una mossa che rischierebbe di aggravare ulteriormente il debito delle amministrazioni locali e la bolla immobiliare. In cantiere un piano che prevedrebbe una liberalizzazione dei tassi di interesse e una riforma del regime fiscale per le amministrazioni locali , da presentare a ottobre prossimo in occasione del terzo plenum del Comitato Centrale del partito. Tra le priorità rimane la creazione di posti di lavoro con sette milioni di neolaureati entro fine anno che si apprestano alla ricerca del primo impiego.
Saranno proprio loro a cambiare la Cina. La società civile è in fermento. Ne è convinto Han Dongfang: "Cinque anni fa se un operaio entrava in sciopero finiva in prigione, al massimo potevi protestare contro l'inquinamento. Oggi il governo cinese sta cambiando mentalità, non è più ossessionato dalla stabilità a tutti i costi, ha capito che usare il pugno di ferro anziché fare i conti con la realtà, ha un eccessivo costo politico. Il ruolo del social network e la competizione tra la carta stampando sta poi cambiando il sistema dell'informazione, che il governo fa più fatica rispetto a prima a controllare. La contrattazione collettiva è un concetto che 'China Labour Bulletin', insieme ad altre organizzazioni, sta introducendo gradualmente, in Cina, e che il governo sembra accettare. Sono fiducioso: è questa la strada verso l'evoluzione politica, ed economica, della Cina. Questa è la partita su cui si gioca il futuro del sindacato ufficiale".